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10 settembre 2001

Questa è la data di stampa dell'ultimo numero di "Le Monde diplomatique - il Manifesto".
Un giorno prima della strage americana, di cui, infatti, il mensile non fa menzione.
Eppure, è come se ne parlasse: come con le profezie di Nostradamus e le parole di padre Benjamin, post eventum sembra di poter trarre un costrutto dagli articoli che si occupano di Palestina, finanza islamica, globalizzazione.
Non ci fosse stata la catastrofe, quelle pagine suonerebbero come un utile e un po' noioso approfondimento di politica estera.
Ora, sembrano acquistare, invece, i contorni feroci della minaccia e quelli beffardi della trappola.
Nella quale, manco a dirlo, stiamo precipitando.

L'articolo di cui citiamo un brano porta il titolo: "Logiche di guerra in Medioriente".
La firma è di Paul-Marie de la Gorge

Man mano che il meccanismo dell'Intifada e della repressione israeliana tende a paralizzare ogni sforzo per l'attuazione di un reale cessate il fuoco, in Palestina si rafforza la determinazione di coloro che intendono portare avanti una prova di forza che costringa Israele alla ripresa di un negoziato politico. Allo stesso tempo aumenta l'angoscia di quanti vogliono evitare il crollo dell'Autorità palestinese e il naufragio dei risultati dell'accordo di Oslo.
Uno dei principali dirigenti di Hamas ha affermato senza mezzi termini: "Poiché il blocco del “processo di pace” ha dimostrato la necessità di ritornare alla lotta armata, quest'ultima non deve più essere abbandonata; ma poiché essa non vincerà se si limiterà al territorio palestinese, il nostro obiettivo è provocare in tutto il mondo arabo e musulmano una scossa abbastanza forte da costringerlo, alla fine, a mobilitarsi in nostro favore".
A chi obietta che nessuno stato della regione sembra disposto a intervenire in un conflitto con Israele, sia pure in maniera indiretta, viene immediatamente risposto che saranno l'opinione pubblica, le popolazioni, le masse a costringere i governi a uscire dal loro torpore o a trovare appropriati strumenti d'azione per venire in aiuto della resistenza palestinese o per minacciare direttamente lo stato ebraico. E quando si aggiunge che, alla fine degli anni 60 e nei primi anni 70, l'Olp ha inutilmente puntato sulle "rivoluzioni" che avrebbero avuto luogo in seguito al suo appello, la risposta tende ad esprimere la posizione della cosiddetta corrente politica e sociale "islamista", di cui Hamas è solo l'espressione palestinese: non saranno le "rivoluzioni" a mobilitare il mondo arabo e musulmano, ma la religione.



L'orrore che ci unisce
Adriano Sofri su la Repubblica

LA DISCUSSIONE di oggi, fra chi ne ha l'età, non sarebbe leale se non si chiedesse come avremmo reagito a un 11 settembre durante la guerra in Vietnam. Io non lo so. Spero, e credo, che avremmo provato dolore per la strage. Avremmo probabilmente dissociato le vittime dai governanti americani, imputando a questi la responsabilità ultima dell'attacco ai loro concittadini e alle loro città, e della stessa disperazione degli attaccanti.

Dov'è la differenza? Solo in noi, nel tempo che ci ha lavorati? Intanto, c'era la guerra in Vietnam: oggi ci sono molte guerre, cruente e sorde, ma nessuna che somigli a quella. Poi i vietnamiti non compirono mai un attacco paragonabile. Infine, è forse la cosa più importante, noi, più di trent'anni fa, non avevamo paura che il mondo finisse. Né noi né gli altri. Mentre scrivo, il telegiornale dice da New York: "Qui vanno a ruba i cosiddetti kit dell'apocalisse".
Quando ho visto le immagini degli attacchi alle Torri di Manhattan, ho provato il desiderio di essere morto prima. Non l'avrei scritto, se non avessi letto un'intervista in cui Rudolph Giuliani diceva questa stessa cosa. Però Giuliani è il sindaco di New York, e io in America non sono mai andato, benché abbia visto tanti film. Perché ho provato il rimpianto di non esser morto prima di quella vista? Ho cercato di rispondere, cominciando dall'obiezione più ricorrente di chi ha provato sentimenti diversi.
L'obiezione che ci sono morti di pregio e morti senza valore: americani per cui ci si commuove, e timoresi e iracheni e afgani per cui non si batte ciglio. E' un argomento che non riesce a persuadermi. In generale non apprezzo che si valutino le cose, e il dolore specialmente, solo comparandole ad altre cose.
L'equità cui questo puntiglio comparativo si ispira è spesso un pretesto al cinismo, quando non sia spiegata da un dolore troppo forte direttamente patito, al punto di mutilare provvisoriamente un lato dell'umanità. Dunque rispetto, senza dipenderne, l'obiezione di un orfano ruandese o di una madre irachena, non di un mio concittadino come me (o più di me) illeso e benestante. Se riguardo la mia vita, trovo di non aver lasciato troppo che i pregiudizi deformassero la compassione.



La sinistra vince le elezioni in Polonia ma non raggiunge la maggioranza assoluta
Su l'Unità

I dati definitivi saranno diffusi solo mercoledì ma i risultati provvisori non lasciano dubbi: le elezioni in Polonia hanno fatto registrare una netta vittoria della sinistra, che però non riesca ad arrivare alla maggioranza assoluta. Confermata invece la sparizione del Blocco di Solidarnosc, che non supera la soglia di sbarramento del cinque per cento.
Le ultime proiezioni dell'istituto PBS assegnano all'Allenza per la Sinistra Democratica 219 seggi nel Sejm, la camera bassa del parlamento, 12 in meno della maggioranza assoluta che avrebbe consentito al premier in pectore, Leszek Miller, di governare senza dover
scendere a compromessi con il Partito Agrario. Il prossimo governo eredita dalla maggioranza uscente di centro destra un indebitamento record con l'estero e Miller dovrà adottare drastiche misure in materia di politica economica per accelerare l'ingresso della Polonia nell'Unione Europea.

Le elezioni hanno profondamento mutato lo scenario politico della Polonia: la virtuale sparizione di tutti i partiti di centro-destra - puniti per l'inefficacia della loro azione politica, la corruzione e gli scontri interni che hanno caratterizzato la legislatura uscente - ha lasciato in campo una sinistra forte ma anche una serie di partiti di estrema destra - nazionalisti, cattolici e rurali - che hanno raccolto il voto di protesta.

Unica formazione centrista a superare la soglia di sbarramento è la Piattaforma Civica, fondata all'inizio dell'anno dal liberale Andrzej Olechowski - già ministro degli esteri del governo di sinistra e delle finanze per l'esecutivo di Buzek - che però ha già fatto sapere che preferisce assumere il ruolo di prima forza dell'opposizione. Al premier incaricato quindi non resta che rivolgersi al Partito dei Contadini, anche se una accordo sul programma economico sarà estremamente difficile.


  24 settembre